Tra una sghignazzatina e l'altra.

COMICO (gr. geloion; lat. Comicus; ingl. Comic; franc. Comique; ted. Komisch). Ciò che fa ridere, o la possibilità di far ridere, mediante la risoluzione impreveduta di una tensione o di un contrasto. La più antica definizione è quella di Aristotele, che lo considerò come "qualcosa di sbagliato e di brutto che non procura nè dolore nè danno" (Poet.). Lo "sbagliato" come carattere del C. significa il carattere imprevisto, perchè non ragionevole, della soluzione, che il C. presenta, di un contrasto o di una situazione di tensione. Queste notazioni sono rimaste sostanzialmente le stesse nella storia della fitosofìa. Hobbes ha insistito sul carattere inaspettato del C., e lo ha connesso con la coscienza della propria superiorità (De homine). Alla tensione e quindi alla soluzione inaspettata di essa riduce il C. Kant: "In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa di assurdo (in cui per conseguenza l'intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). Il riso è un'affezione che deriva da un'aspettazione tesa, la quale d'un tratto si risolve in nulla. Proprio questa risoluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l'intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità" (Crit. del Giud.). L'Illuminismo vide nel C., e nel riso che lo esprime, un correttivo contro il fanatismo e la manifestazione di quel "buon umore" che Shaftesbury considerava come il miglior correttivo del fanatismo stesso (Letter on Enthusiasm, II). Hegel invece lo considerava come l'espressione di un possesso sodìsfatto della verità, della sicurezza che si prova di sentirsi al di sopra delle contraddizioni e di non essere in una situazione crudele o disgraziata.

Lo identificava, in altri termini, con una felicità sicura di sè, che può perciò sopportare anche lo scacco dei suoi progetti. E in ciò egli lo distingueva dal semplice risibile, in cui vedeva "la contraddizione per la quale l'azione si distrugge da sè e Io scopo si annulla realizzandosi" (Vorlesungen uber Aesthetik). Questa nozione hegeliana del C. è tuttavia un'idealizzazione romantica del fenomeno, più che un'analisi di esso è l'esagerazione di quel sentimento di superiorità che già Aristotele notò trovarsi nel C. quando "considerò la commedia come o imitazione di uomini ignobili" (Poet). La nozione tradizionale del C. esce riconfermata dall'analisi che ne ha fatto Bergson (Le rire), la quale rimane fino ad oggi la più ricca e precisa. Egli nota che il C. si ha quando un corpo umano fa pensare a un semplice meccanismo; o quando il corpo prende il sopravvento sull'anima o la forma sorpassa la sostanza e la lettera lo spirito; o quando la persona ci dà l'impressione di una cosa; tutt casi, questi, nei quali il C. è posto in un'aspettativa che viene delusa con una soluzione imprevisti e, come avrebbe detto Aristotele, sbagliata. Allo stesso modo, il C. delle situazioni o delle espressioni che si ha quando una situazione può interpretarsi in due modi differenti o per l'equivocità delle espressioni verbali; è perciò sempre uno sbaglio, una soluzione irragionevole data ad un, aspettativa di soluzione. Al C., Bergson attribuisce anche un potere educativo e correttivo. "Il rigido, il bell'e fatto, il meccanismo in opposizione all'agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vivente, la distrazione in opposizione alla previsione infine l'automatismo in opposizione all'attività libera, ecco ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere"(Ibid.).

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